La storia del cinema: i modernisti degli anni ’60
Negli anni ’60, il cinema modifica scopi e tecniche; i film non sono più realizzati per intrattenere spensieratamente il pubblico, bensì rappresentano la maniera profondamente personale con cui i registi vedono la realtà, riuscendo contemporaneamente a spingere in avanti i limiti del mezzo cinematografico. Pionieri di questo modernismo furono i registi dei paesi dell’est europeo, ma il nuovo linguaggio cinematografico si diffuse nel resto del mondo, anche se solo per un decennio. Vediamo i protagonisti di quel periodo della storia del cinema.
Tutto ebbe inizio nei paesi dell’est europeo dove registi coraggiosi realizzavano film con i quali si opponevano al regime; il risultato fu che alcuni vennero imprigionati, i loro film vennero proibiti e ad altri venne impedito di lavorare; qualcuno, però, imparò ad usare un linguaggio celato, simbolico, insomma a mascherare il significato critico al regime codificandolo attraverso dei simboli.
In Polonia lavorarono così Andrzej Wajda e Roman Polanski. Polanski, più spregiudicato di Wajda, dovette lasciare la Polonia e nel 1967 realizzò uno dei suoi film migliori, Per favore, non mordermi sul collo!, ricco d’ironia e girato in un castello, luogo che amava come location per la possibilità di aggirarsi con la macchina da presa in angoli misteriosi.
In Cecoslovacchia lavorarono Jiri Trnka, Milos Forman e Vera Chytilova; Trnka era specializzato in animazione e film con marionette, con trame dal doppio senso fortemente negativo, mentre Forman preferiva rappresentare la comicità della realtà. Vera Chytilova è stata la regista cecoslovacca più innovativa, con il suo film Le margheritine (1966), le due protagoniste cigolano come bambole; le fu impedito di lavorare per ben sei anni, a causa del suo modernismo.
In Ungheria lavorarono Miklos Jancso a cui è attribuito il miglior uso del piano sequenza che egli utilizzava per evocare la sofferenza dei suoi protagonisti.
In Unione Sovietica lavorarono Andrei Tarkovskij e Sergej Paradzanov. Tarkovskij amava fare film sull’immateriale in una società materialista come quella sovietica; da ricordare Lo specchio (1975) dove nel letto di un uomo morto, una mano si apre facendo volare un uccellino, simbologia cristiana dell’anima che vola in cielo; innovativo è anche Nostalghia (1983) dove la scena de l’uomo con il cane davanti ad un lago, si apre rivelando che ciò che specchia nell’acqua è una cattedrale in rovina, una evidente metafora. Paradzanov rappresentava in modo poetico un mondo visivo magico e personale, come in Le ombre degli avi dimenticati (1965).
Nel Giappone degli anni ’60 i registi parlavano di traumi ed alienazioni, ma poi arrivò Nagisa Oshima che affrontò in maniera personale i temi del cinismo e dell’avidità contemporanei; di Oshima ricordiamo Il bambino (1969) dove un bambino simula un incidente e la madre chiede il risarcimento e Ecco l’impero dei sensi (1976), ancora più amaro, tratto da una storia vera. Shohei Imamura fa largo uso della tecnica panoramica, con cui i soggetti principali vengono inquadrati da lontano; Imamura diceva che i temi più coraggiosi dei suoi film riguardavano le parti bassi del corpo umano e della società, ossia il sesso ed i rapporti di classe.
In India lavorarono Ritwik Ghatak e Mani Kaul. Ghatak ci mostra l’intensità delle emozioni, da melodramma, con le sue inquadrature larghe; Kaul, invece, frammenta l’azione con le sue riprese per enfatizzare.
In Brasile, Glauber Rocha rappresenta la violenza di un popolo che muore di fame. In Iran, Forugh Farrokhzad, fondatrice del cinema iraniano, usa una tecnica di ripresa dove una scena particolare è inframezzata da scene di vita quotidiana, restituendone un messaggio di poesia.
In Senegal, Ousmane Sembene realizza il primo film innovativo dell’Africa nera con La nera di … (1966), un film sulla società moderna dove marxismo e conflitti di genere sono collegati.
In Gran Bretagna i film diventano più consapevoli dei problemi di classe; rappresentativi di questo periodo sono i registi Karel Reisz con Sabato sera, domenica mattina (1960), Ken Loach con Kes (1969), Richard Lester con Tutti per uno (1964).
Anche negli Stati Uniti, negli anni ’60 giunge il momento di sfidare le convenzioni ed Hollywood, anche perché le proteste crescenti contro la guerra in Vietnam non potevano essere ignorate dal cinema. Ricordiamo tra i registi di quel periodo Robert Drew con Primary (1960) che mette a punto la tecnica innovativa, detta “la mosca sul muro“, con la quale la cinepresa segue il suo personaggio, ovunque; ricordiamo anche John Cassavetes con Ombre (1959) che, con la stessa tecnica, segue tre personaggi afro-americani per le strade; ricordiamo Dennis Hopper con Easy Rider (1969) che rappresenta in maniera personale i movimenti giovanili del ’68; ricordiamo, infine, Stanley Kubrick con 2001 Odissea nello spazio (1968), dove l’astrazione cinematografica supera i limiti di spazio e tempo.
Il cinema degli anni ’60 introduce elementi innovativi con forte e profonda personalizzazione da parte dei registi, ma gli anni ’70 sono alle porte e vedranno il ritorno di un cinema di svago, divertente e romantico.
Cinzia Malaguti
L’articolo è liberamente tratto dal video The story of film su Rai Play